Arte & Cultura

“Da bambino il design ha fatto parte della mia quotidianità. Oggi sono un designer emergente”

Giuseppe Arezzi, classe ‘93, si racconta a 97100 partendo dall’inizio ai nuovi progetti per il futuro.

Ragusano di nascita impiantato a Milano per frequentare il Politecnico e approfondire ciò che da sempre aveva vissuto e attratto, il design. Già dagli esordi universitari si è messo in gioco distinguendosi dai suoi coetanei e colleghi partecipando a concorsi nel campo del design raggiungendo ottimi risultati. Oggi, a 25 anni, è un professionista del settore che già vanta collaborazioni importanti con nomi come i maestri Branzi e De Lucchi, per i quali Arezzi ne è assistente ai loro corsi al Politecnico di Milano, a Domitilla Dardi, curator designer del MAXXI di Roma, ma anche le riviste di settore come D Casa, Interni e Domus l’hanno notato e parlano di lui.

Per raccontare il percorso di Arezzi, è quanto mai affascinante nonché fondamentale conoscerne la storia, quella privata della sua famiglia che nel campo del design si è certamente distinta nel ragusano e non solo. Dunque, la domanda è: da dove vieni?

Se io ho scelto di fare il designer c’è un motivo, è qualcosa che ho voluto fortemente.

Giuseppe Arezzi, mio nonno venuto a mancare nel ‘97, nei primi anni ‘70 aprì a Ragusa, insieme al socio Bufardeci, il negozio AB arredamenti grazie al quale riuscì a portare a Ragusa la cultura del progetto. Ragusa vede riempirsi le sue case di mobili di altissimo livello, mobili di design che oggi sono in esposizione nei musei di design del mondo, parliamo di Cassina, Artemide, Flos, Knoll, Diade, Kartell ovvero le aziende che hanno fatto la storia del design. Probabilmente, mio nonno è stato il primo a portare e far conoscere la cultura del design a Ragusa.

In seguito, la volontà di andare oltre la vendita di prodotti delle grandi case di design lo porta alla decisione di produrre i suoi mobili. È il 1984 quando l’azienda Arezzi cucine apre i battenti a una nuova era nel campo del design ragusano e non solo, divenendo leader nel settore delle cucine e mobili su misura, un’eccellenza sul territorio. Azienda tutt’ora attiva florida i cui prodotti sono presenti nelle case dei ragusani e dei siciliani.

Dunque, a casa mia si è sempre respirata la cultura del progetto, facevo i pisolini nel divano Maralunga di Vico Magistretti a casa di mia nonna, i pranzi nel tavolo di Knoll, accendevo e spegnevo la lampada di Achille Castiglioni, nella stanza dei miei genitori si trova il Servomuto di Achille Castiglioni disegnato per Zanotta. Per me tutto questa faceva e fa parte della mia quotidianità, ma già da bambino ero consapevole, comprendevo ciò che mi circondava, non era inusuale che io sfogliassi le riviste di settore, conoscevo a memoria i designer e dei loro lavori, quindi al momento della scelta universitaria questa era già chiara, io volevo fare il designer, volevo anch’io progettare quegli oggetti che avevo visto e vissuto da bambino.

Gli studi universitari, le ricerche personali, le influenze dei protagonisti del settore e della tua famiglia hanno definito il core del tuo lavoro, identificabile in due punti: l’antropologia e le tradizioni culturali. Proprio da queste ultime nel 2012 nasce Manic#:

Il mio primo vero progetto. Manic# nasce perché sono stato invitato a partecipare ad un concorso bandito dal negozio Tito D’Emilio di Catania (prestigioso negozio di mobili della Sicilia), in cui si chiedeva a designer siciliani di progettare un prodotto che parlasse della loro terra. Avevo appena iniziando il secondo anno di Università e ho colto l’occasione come un esercizio, dunque mi sono chiesto “Che cos’è la Sicilia?”. Oggi la visione, un po’ nazional-popolare, dei colori sgargianti e dei carretti siciliani, delle ceramiche di Caltagirone, le teste di moro, di un folklore pomposo, barocco e gattopardiano è stata sdoganata in mille varianti, ed io ho voluto eliminare tutto questo. Per me la Sicilia non è solo quello. Ho pensato ai cambiamenti che stanno avvenendo in Sicilia, e mi era evidente il cambiamento antropologico, cioè quel passaggio dall’agricoltura vernacolare, l’agricoltura manuale fatta di zappe e rastrelli, all’agricoltura moderna con macchine agricole sempre più tecnologiche e sofisticate. Quindi, “Cosa fa il contadino con tutti questi attrezzi inutilizzati?”, da qui l’idea di Manic# la poltrona che nasce dai manici di attrezzi in disuso che verrà posta sotto un albero di ulivo in cui il contadino si poggerà per guardare le macchine che lavorano al suo posto.

Una poltrona che fa parte della contemporaneità ma che vive nella sua struttura del passato. È contemporanea perché smontabile e trasportabile (la seduta diventa il packaging che avvolge i manici e le cinghie che tengono la tenuta diventano le cinghie per chiudere il pacco), propria dell’uomo contemporaneo che è nomade, costretto per gli eventi a traslocare ad essere itinerante.

Altra musa del tuo lavoro è l’antropologia. Una ricerca interessante sulla relazione tra l’uomo contemporaneo e la natura ti ha portato a scoprire ed indagare sull’identità dell’eremita contemporaneo e dei suoi bisogni. Nel 2017 Beata Solitudo è il progetto che incarna nei fatti l’idea del rifugio dell’eremita contemporaneo, ora dinamico, ora tecnologico, ora itinerante. Nata come tesi del Master, grazie a Domitilla Dardi, design curator del MAXXI di Roma, diviene installazione al Cantiere Galli di Roma, all’interno del progetto “Una stanza tutta per sé”, per te dunque un’occasione per raccontare il tuo lavoro e mostrarlo a un pubblico più ampio di quello accademico.

Mi sono reso conto che l’uomo di oggi è segnato da un forte cambiamento, non vive più per il domani, non accumula per investire nel futuro, ma vive il presente. L’uomo di oggi ha altre priorità, è sempre pronto a partire a non rinunciare alle occasioni, quindi anche a migrare continuamente. Una vita frenetica fatta per il nulla, in cui l’uomo decide a volte di isolarsi divenendo un vero e proprio eremita.

Così, mi sono imbattuto negli scatti di un fotografo, Carlo Bevilacqua, che ha fotografato tutti gli eremiti contemporanei, persone provenienti da diversi contesti sociali dall’ex comandante di crociere all’ex broker, dall’ex modella all’ex banchiere che stanchi di una vita frenetica hanno deciso di abbandonare tutto e di isolarsi. Una figura che mi ha fatto riflettere molto è stata quella di Tiziano Terzani, il quale ha passato gli ultimi anni della sua vita da eremita. Ho trovato la foto che lo ritrae in isolamento col computer mentre scrive, non si sa se fosse collegato alla rete, non si sa se stesse semplicemente scrivendo, però era un eremita col computer. Un eremita contemporaneo che non vive più nelle grotte, ma è una persona colta, con interessi e delle necessità. Per questo ho pensato di costruirne il rifugio, il rifugio dell’eremita contemporaneo.

Beata Solitudo è proprio quel rifugio, un’abitazione smontabile, creata in legno e tessuto che può essere adattata a diversi contesti abitativi. Questa struttura prende spunto dall’architettura vernacolare, ovvero l’architettura senza architetti, ed è concepita per essere autosufficiente grazie all’utilizzo di fonti rinnovabili (come pannelli fotovoltaici, pale eoliche, accumulatori di acqua piovana) e spazi per l’allevamento animale. Una casa effimera, adattabile, smontabile, trasportabile, un po’ come il guscio di una tartaruga che può essere portato sempre con sé.

Michele De Lucchi, Andrea Branzi, Francesco Faccin, Francesca Balena Arista, Emanuele Magenta. Con ognuno di loro hai avuto rapporti ed esperienze formative interessanti per la tua crescita professionale. Cosa ti hanno insegnato?

Branzi e De Lucchi sono stati i miei maestri. Le loro lezioni sicuramente hanno influenzano la mia consapevolezza sull’idea del progettare, sull’attenzione all’antropologia. Infatti, il loro laboratorio mi ha dato proprio questo imprinting, ovvero pensare il design da un punto di vista antropologico. Quando progettiamo un oggetto, uno spazio è fondamentale conoscere l’uomo e la l’antropologia è proprio quella scienza che studia l’uomo e i suoi cambiamenti, come usa gli oggetti, come si muove e vive lo spazio.

Faccin e Balena Arista sono stati i miei relatori di tesi. Lei storica, curatrice e profonda conoscitrice dell’architettura radicale, è docente nel laboratorio di Branzi e De Lucchi, e oggi io sono suo assistente al Politecnico. Faccin oltre ad essere stato mio relatore, è stata la prima figura con cui mi sono confrontato sul piano professionale, è stato il designer con cui per 3 anni ho scelto di lavorare perché il suo lavoro lo sentivo molto vicino al mio. Grazie a lui mi sono affinato come progettista nel gestire le forme, le proporzioni, i materiali.

Emanuele Magenta, designer la cui visione del progetto è diversa dalla mia rivolta verso una cultura popolare e un prodotto di massa, mi ha insegnato gli aspetti legati al commerciale e al marketing.

Le influenze nella mia formazione sono state molte, queste sicuramente le principali e tutt’ora ne fanno parte.

Un percorso certamente florido e promettente che si discosta da quello di molti giovani designer che faticano ad avviare le loro carriere così presto. La strada sembra essere ben definita per accogliere nuove esperienze, altri progetti in cantiere?

Dal 7 febbraio all’2 marzo 2019 terrò una residenza all’Istituto di Italiano di Cultura di Parigi. L’istituto è un ente che si occupa della promozione della cultura italiana a Parigi, e mensilmente invita giovani emergenti di vari ambiti da chef a musicisti, scrittori, artisti, designer. È un evento prestigioso, per la quale si viene nominati da una giuria esterna, e sicuramente mi darà la possibilità di cimentarmi in una nuova realtà nonché un’esperienza unica.

Website: www.giuseppearezzi.com
Instagram: @giuseppearezzi
Facebook: Giuseppe Arezzi