Serve impegno a resistere alla voglia di far aderire la pianta dei piedi alla pietra di un luogo senza tempo. Invece si è obbligati a vivere quella sensazione di scomodità che nasce spontanea quando si è costretti a attenzionare l’andamento del proprio corpo.
Lo spazio è di una pedana in legno, larga quanto due corpi, uno adiacente all’altro, e lunga un po’ di metri, che raddoppiano la curiosità di raggiungerne il punto più estremo. La luce dei tubi a led è cruda, disegna un tunnel, illumina il percorso ma anche tutto ciò che ti circonda, senza nascondere nessuna crepa, pare una lente d’ingrandimento, sentenzia lo stato di quella struttura dentro cui muoversi, un passo alla volta.
Percorrere la pedana, con l’impressione di percepire la polvere di un cantiere, e ti ritrovi ad essere tu, l’operaio di quel cantiere, osservi le fondamenta, le pareti della navata. Fino ad arrivare lì, alzare in alto la testa e rimanere immobile per la pienezza degli affreschi a trompe-l’oeil che avvolgono il presbiterio della chiesa di Sant’Anna. E non ci si può che chiedere: perché questo posto non è fruibile, alla pari di qualunque altra chiesa?
“Luce per un Cantiere” è il tentativo del designer Angelo Sanzone, insieme all’apporto del regista Andrea Giannone, di riaccendere questa domanda e renderla interrogativo comune, a partire proprio dalla richiesta del Fondo per l’Ambiente Italiano, di far visitare questo edificio, proprio accanto all’Ente Liceo Convitto di Modica, solitamente inaccessibile, eppure uno scrigno di bellezza architettonica sconosciuta ai più.
Un’installazione di arte contemporanea, vestita da pedana, amovibile in legno e posta al centro della navata, percorribile da sei persone alla volta, non di più, con l’intento di sensibilizzare attraverso quella luce rossa che d’impatto sorprende, una volta tornati indietro, metafora della ferita di un luogo nascosto di cui avere cura, a partire dal primo tassello di costruzione: lo sguardo.
“Abbiamo trattato lo spazio come un cantiere – racconta il designer Sanzone – la passerella è volutamente fatta da un metro, una luce come si passasse sotto un ponteggio, piatta, di cantiere. Vivere il percorso come si stesse facendo il primo sopralluogo da parte del tecnico, non a caso si ha la sensazione di camminare su qualcosa di precario. Sensibilizzare l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori, affinchè si proceda con il restauro di un luogo che è unico, è la speranza più grande. La luce rossa vuole raccontare la sofferenza di questo edificio, che grida aiuto, che nasconde dei tesori di cui non siamo neanche consapevoli, eppure unici nel suo genere, nel Val di Noto.”
Marianna Triberio