Qualche giorno fa ho avuto finalmente il piacere di guardare Nymphomaniac vol. I e II, l’ultima fatica del regista danese Lars Von Trier. Uscito nel 2013, la pellicola non ha goduto purtroppo della totale disponibilità di fruizione da parte del pubblico per diversi motivi: temi trattati, forme di proponimento delle scene che hanno portato a pesanti censure, nonché un non sempre spiccato intuito da parte del circuito cinema nella scelta dei film da proporre al pubblico di settimana in settimana. Naturalmente, questi sono solo degli elementi riassuntivi per spiegare le tante controversie che orbitano intorno a quest’opera, ma per comprendere un pò meglio la comunicazione di Von Trier ritengo sia necessario esplicare un breve quadro generale della sua persona e del suo pensiero.
“Spaventa-famiglie”, antisemita, misogino, visionario, folle, il regista danese è stato etichettato in tantissimi modi nel corso della sua carriera, in certi casi in maniera periferica, in altri mettendo probabilmente bene a fuoco l’obiettivo giudicante. È anche vero che alcune sue dichiarazioni riguardo al nazismo, durante la presentazione di “Melancholia” al Festival di Cannes, non lo hanno aiutato a costruirsi un’ immagine comunemente positiva. E non solo questo, l’educazione autodeterminata (non)imposta dai genitori, le numerose fobie, l’ipocondria, i momenti di depressione, il pesante uso di droga e alcool hanno anch’essi contribuito a tracciare una figura controversa della sua persona. E il fatto che lui parli apertamente di tutti i suoi problemi (non solo attraverso i suoi film) crea un ulteriore alone di ambiguità, compassione e “terrore”. Gli stessi attori che hanno lavorato con lui lo hanno definito maniacale, severo, esagerato, dittatore sul set, per poi considerarlo una persona squisita, che arriva al cuore e all’essere delle persone. Come nei suoi racconti, non nasconde niente, rincorre il vero, lo afferra e l’obbliga a mostrarsi. D’altronde lui è uno dei fondatori del Manifesto del Dogma 95. Un “voto di castità”, un azione di salvataggio contro la percezione borghese del cinema che smantella l’illusione decadente e ingannevole dei film, a favore dell’emergere della verità per come si dovrebbe mostrare, nuda e senza alcun elemento di finzione. Quindi niente luci, niente scenografie, nessuna colonna sonora, tanto meno gli effetti speciali. La verità emerge dai personaggi e dalla location, la quale non deve subire modifiche o aggiunzioni. Un abbellimento avanguardistico dell’opera d’arte (quale dovrebbe essere il film) dettato da imposizioni e regole(non è un caso che avanguardia abbia connotazioni militaresche) atte a cambiare il cinema cosmetizzato degli anni ’60 e a seguire.
Ed è proprio attraverso la verità che Lars Von Trier vuole raccontare emozioni e stati d’animo che sono propri della sua persona, con un viscerale bisogno di condividere i suoi malesseri, i suoi giudizi e i suoi ragionamenti. Esempio lampante è la “trilogia della depressione” rappresentata da tre capolavori molto spesso sottovalutati dal pubblico(meno dalla critica): “Antichrist”, “Melancholia” e “Nymphomaniac”.
Nonostante in questi tre film si possano intuire nella scorza elementi di diversi generi, sono tutti accomunabili da ciò che è stato detto finora sul regista.
In “Antichrist” le forme del genere horror e del gotico aiutano a far emergere la psicoanalisi di una donna (una egregia Charlotte Gainsbourg, palma d’oro a Cannes con questo film e musa persistente di Von Trier), ambasciatrice e diretta espressione della potenza maligna della Natura (nome femminile al punto che la si definisce solitamente Madre,) in preda ai sensi di colpa per la scomparsa del figlio, gettatosi da una finestra mentre consumava un rapporto sessuale col marito (Willem Dafoe).
In “Melancholia”, lo sfondo fantascientifico(il pianeta Melancholia sta per entrare in collisione con la Terra) fa da cornice ad uno stato depressivo particolare, cui lo stesso regista è stato affetto e che ha ispirato la stessa pellicola. Qui Lars mette bene in risalto la razionalità dell’irrazionale (attraverso il personaggio di Justine, interpretata da un immensa e credibile come pochi Kirsten Dunst, anche lei palma d’oro a Cannes) e ,viceversa, l’irrazionalità del razionale(attraverso la sorella di Justine, Claire, interpretata da un altrettanto ottima Charlotte Gainsbourg). Una disamina della psiche umana prediletta ai tratti “catastrofici” e “scientifici” della trama di fondo.
E arriviamo finalmente a “Nymphomaniac”, la cui visione mi ha definitivamente convinto della nascita di un nuovo genere etichettabile e pienamente associabile alla persona di Lars Von Trier in tutto e per tutto.
Qui la forma scelta sembra essere quella del film hard, arrivando a sfiorare il porno. Ma superando questa miope concezione, si arriva a considerare “Nymphomaniac” come addirittura un superamento di quei due generi, in quanto l’eccitazione intellettuale riesce a soggiogare a sé l’eccitazione carnale, spiattellata ingannevolmente per tutto il film. La storia della ninfomane Joe (Charlotte Gainsbourg e Stacy Martin), raccontata al pacato e “culturale” Seligman (Stellan Skarsgard), fa riflettere, ipnotizza, mette a disagio e insegna allo stesso tempo. Anche qui abbiamo la forte necessità da parte del regista di esprimere in modo completo ciò che sente, attraverso la sua esplorazione della vita sessuale accostata a riferimenti filosofici, matematici, musicali, culturali e artistici. Il rapporto tra Lei e Lui in “Antichrist” e quello tra Justine e Claire in “Melancholia” si accomunano perfettamente al rapporto tra Joe e Seligman, quanto mai espressioni di conflitto interiore dell’autore.
Ci sono autori che si limitano a raccontare una storia, e poi c’è Lars che racconta la propria. E la racconta sempre in un modo nuovo, svelando sempre più sfaccettature del suo essere enigmatico. Insomma, se dovessimo trovare una collocazione ai suoi film nello scaffale, non dovremmo trovarli in nessuna delle sezioni conosciute. Se ne dovrebbe creare una inedita, quella adibita al “genere Lars Von Trier”.